“GLI ADDII”, di JUAN CARLOS ONETTI – LA MIA RECENSIONE (NO SPOILER) 

Le storie che mi piacciono.
Raccontate per bocca d’altri, con questi ultimi presi dalle proprie vite; quelle a cui non possono rinunciare ma dalle quali temporaneamente fuggono, divenendo, taluni, osservatori parlanti di basso rango; talaltri, profondi narratori tesi a trarre nostalgiche considerazioni.
Questi privilegiati si curano di un particolare lui nella nostra storia…di un ex giocatore di pallacanestro (una ex star ormai avanti con gli anni), che arriva dal nulla nella loro piccola comunità con tutta l’aria di non voler, da quel nulla, salvarsi.
C’è un sanatorio nelle vicinanze, ed è sostanzialmente l’unica ragione a portarci delle persone laggiù, in quel “lì” strutturato topograficamente da un semplice albergo e da qualche casetta, di cui alcune, destinate all’affitto di chi attende di essere ricoverato.
Tutto ciò che del protagonista viene raccontato è indiretto (a tal punto che non ne conosceremo neppure il nome!); ricordate, solo le persone appartenenti alle due categorie indicate in apertura ci permettono di saperne qualcosa…e il narratore più profondo, ha bisogno di appena pochi attimi (le prime pagine del libro) per poter trarre la sua prima considerazione (sulla quale naturalmente permarrà il dubbio per tutta la lettura): non si curerà. Sì, perché da subito, veniamo a sapere che il protagonista è malato, ha poco tempo a disposizione e, appunto, sembra, non si curerà.
Ancora una volta: tutto è appena accennato, fragile, generato dalle impressioni di chi guarda, passato per l’oralità di una comunità che vive esclusivamente delle dinamiche di coloro che sono destinati ad occuparsi dei propri malanni, più o meno gravi, percorrendo la strada verso il sanatorio, da tal dottor. Gunz (stranamente, di lui, come di pochissimi altri, ci è dato sapere il nome).

Eppure l’uomo è lì, in quel luogo… sa che non c’è altro scampo che il ricovero, ma, quasi in estremo omaggio alla sua ormai passata virilità fisica da sportivo, non accetta di fare il passo, di arrendersi; e scandisce le sue giornate tra passeggiate lente, stanche e la ricezione regolare di lettere…

Quelle lettere… Il mistero del romanzo!…ed io, mi sono immaginato latore di queste missive, a mio vantaggio usufruire di tale privilegio e aprirle di nascosto, come se contenessero tutte le risposte per disinnescare l’insopportabile fluire calmo dei giorni; e che possa guarire la mia malattia (anch’io malato, anche noi!) di lettore (di lettori!): il voler sapere, potergli indicare una strada nuova, una fenice narrativa che lo salvi da ciò che sembra il suo fato: io, resomi onnipotente per il tramite delle sue pagine tra le dita…

Mi vedo ad un passo dall’ingresso dell’albergo, dove le lettere gli vengono domiciliate: sono con le mani occupate a stringerle senza sgualcirle, posso chiudere gli occhi e immaginare ogni cosa, unire, anzi rendere più forti i legami tra i puntini che Juan Carlos Onetti mi sembra aver scorrettamente lasciato isolati nella loro flebile consistenza…
Però mi fermo.
Lascio nuovamente tutto a loro, agli osservatori locali, alla loro storia semplice e struggente, accennata e splendidamente malinconica di un lui venuto dal nulla…

Per bocca d’altri, appunto…
Perché, “per bocca d’altri”, non si svela mai fino in fondo il mistero delle cose…
Nella consistenza del loro essere “enigma” hanno ragion d’essere gli addii…
Come gli addii ad alcune risposte; e gli addii ai quali scorci accederete in questa splendida opera di Juan Carlos Onetti.

(autore:diegofanelli)
(immagine presa da internet)

Le analisi metaforiche di Paul Alter

“Te lo dico io cosa sono i fidanzamenti…
Questi due ragazzi che escono dalla gelateria: lui avanti a lei, corrucciato, sbrigativo; lei, tutta l’aria di essere costretta a seguire la linea decisionale di lui (chissà quale sia, poi…), con un dispiacere forzatamente contenuto…
Vorrebbero essere un vagone, si ritrovano a volerlo almeno far sembrare; solo perché non credono, non vogliono, non possono (vai a capire cazzo sia), tornare a farsi due locomotive separate e dirsi addio…”

Le regole metaforiche di Paul Alter sono queste: rigide e ciniche, manichee…
Però le ascolti, e anche sforzandoti di non perdere di vista il fatto che la realtà sia ben più che manichea, ti rendi conto che funzionano, cazzo!

“Paul, ma allora che si deve fare con l’amore?”
“Ragazzo mio (la classica locuzione di chi sta salendo in cattedra, rimanendo confidenziale abbastanza da stare seduto al bar con te e mangiare il dolce con le mani), il punto è un altro: per l’amore si fa fin troppo! Ci sono ragionamenti su temi che devono prima essere svuotati di tutta la merda attorno per poi poterci pensare sopra, capisci? Ora, prendi questo benedetto dolce, ok? Lo sto mangiando con le mani, mi sto ficcando le punte delle dita in bocca per farne sparire ogni traccia… Cosa vuol dire?”
“Che ti è piaciuto…”
“Sbagliato!”
“Cazzo dici, Paul?”
“Non hai elementi per poter dire se mi è piaciuto o meno…sei solo stato abituato a pensare che questi gesti siano significato di apprezzamento…”

Guardo Paul Alter, lanciato nella sua nuova analisi metaforica: mi metto comodo, ascolto…

“Allora…il dolce che ho preso… supponiamo che, qualche decerebrato, l’abbia chiamato ‘amore’ – meglio non guardare il menù non mi stupirebbe se fosse realmente così -,  mi hai visto mangiarlo tutto e leccarmi le dita…vuol dire che mi è piaciuto questo ‘amore?’ Diresti di si, lo so, ma non è così, non necessariamente; potrei essere invece talmente tanto alla ricerca di questo stramaledetto gusto dell’amore che per trovarlo sono disposto a mangiare anche qualcosa che non mi piace! Il fatto che tu sia stato abituato a decifrare un piatto terminato e il leccarsi le dita come segno di apprezzamento non è detto che questo rappresenti per forza la realtà delle cose! Potrebbe avermi fatto talmente schifo che sto ancora cercandolo questo gusto! L’estetica del mio indagare può essere fuorviante!, come i fidanzati di prima!…guardali adesso…ti basta vederli seduti al tavolino…insieme…per dire: ‘si amano!’, anzi no, non lo dici nemmeno, lo dai per scontato: ‘ah si, quei due stanno insieme!…’; dell’amore che dovrebbe unirli non te ne frega nulla, davvero! Hai sostituito tutto con il: ‘ah si, stanno insieme…’; ma non c’è amore in lui, che prima usciva con la faccia scura avanti a lei come se la giornata fosse solo un elenco di punti da ottemperare per poter dire ‘ah si, stiamo insieme!”; e lei?… seguirlo da dietro limitando il più possibile la rabbia insofferente che le si leggeva in volto perché, magari, avrebbe voluto fare altro e non dover ottemperare – pure lei, cazzo! – al punto ‘ah sì, stiamo insieme’! Ora, torniamo al mio dolce…mi danno questo bel pezzo, lo chiamano ‘amore’ e mi dicono ‘mangia’ e, buono o non buono che sia, poi dovrò pure pagarlo! E sai qual è l’altra cosa buffa? Che tutti ci sediamo ai bar, dove le regole sono le stesse! Ordina, mangia, paga. Mai nessuno (o meglio, pochissimi lo fanno) che dica ‘hey fanculo, io mangio  solo questa parte, non tutta la tua merda che hai usato per renderla più appettibile!’; oppure, nessun supereroe che addirittura si sieda ad un tavolo e dica al cameriere ‘solo acqua per me, ragazzo mio…’ e poi piazzi la sua bella torta fatta in casa e la gusti usurpando ogni fottuta regola!”

“Ma non si può fare, Paul!”
“No! Sei stato programmato per pensarlo! E allora tu esci dallo schema! Non si può fare? Beh, tu fallo lo stesso!”

Il cameriere si avvicina verso di noi e con aria semplice fa: “Vedo che ha gradito il dolce signore!”
“Oh, si, una vera merda! Ma l’ho mangiato tutto comunque! Ne ordino un altro pezzo, grazie!”

Queste le situazioni con Paul Alter, non hai mai idea di cosa possa succedere…
Dopo qualche istante, il cameriere torna con la faccia incredula e un altro pezzo della stessa torta, ma Paul non sembra esservi interessato nell’immediato, perché ricomincia subito a parlarmi…

“Ora voglio raccontarti una cosa… Qualche anno fa, ero a Parigi, seduto in un locale. Si mangiava, si rideva, le solite cose. C’era della musica ad un volume abbastanza alto, ma riuscivi a parlare senza doverti sgolare troppo per farti sentire dai tuoi compagni al tavolo. Ad un certo punto notiamo che l’attenzione di tutti è rivolta verso una zona specifica… una splendida ragazza si alza dalla sedia e a tempo di musica incomincia a spogliarsi! Dico sul serio! È rimasta in completino intimo dopo aver fatto uno spettacolino niente male! Aveva occhi solo  per lui, e lui sorrideva contento, di fronte a lei, la quale si risiede, e per un po’ mangia assieme al suo tesorino vestita –  o svestita, chiamala come vuoi – per la gioia di tutti…”
“Secondo me si trattava di qualcosa di organizzato, Paul. È difficile che accadano queste cose tra coppie reali; anzi, direi quasi impossibile! È troppo!”
“BINGO! Hai detto giusto! Ti ricordi la tua domanda? Io si: ‘…ma allora che si deve fare con l’amore?’… Che si deve fare? Non ci devi fare nulla, ragazzo mio! Perché, per amore facciamo fin troppo!”
“Paul, veramente io intendevo un’altra cosa con quel ‘troppo’…”
“So perfettamente cosa intendevi, ragazzo mio! Con quel ‘troppo’, volevi dire che la donna che ti è accanto dovrebbe tenere solo per te le sue grazie,che tu non le chiederesti mai di fare una cosa del genere, che lei ti mancherebbe di rispetto, che tu vuoi essere l’unico suo custode –  e lei altrettanto -, dei vostri segreti, delle vostre perversioni, delle vostre fantasie, ecc…Giusto? Era sostanzialmente racchiuso tutto questo in quel troppo?”
“Si, sostanzialmente si, mi sembra il minimo…”
“No, cazzo! Altro che il minimo! È il fottuto massimo! Anzi, è fin troppo! Guarda questo pezzo di torta, è la stessa identica torta di prima, giusto? Bene. Ora ti confesso una cosa: a me piace solo la crema, il resto…panna…sciroppi vari…mi fanno cagare…”
“Ma perché diamine ordini questa cosa, anziché un altro dolce che sia fatto solo di crema, allora! Prendi solo ciò che ti piace!…”
“Non avevo dubbi che avresti risposto così! E invece no! Per due ragioni: la prima è che così faccio esercizio; la seconda è che potrei sempre scoprire un abbinamento nuovo che poi va a finire che mi piace….Naturalmente non faccio questa cosa continuamente con i dolci, ma lo faccio costantemente con cose tipo l’amore, ragazzo mio! Non è sempre piacevole, perché si è due locomotive che decidono di unirsi (ricordi la metafora di poco fa?…), è ovvio che due oggetti fatti per avere propria locomozione non sempre si trovino bene a viaggiare con la trazione di uno strano ibrido (la riduzione due a uno)…ma proprio per questo, allora, devi imparare ad isolare!… Vedi?, con questo cucchiaino, adesso che so che l’abbinamento della crema di questo dolce con la panna e i vari sciroppi mi fa cagare, isolo la mia amata crema e me la gusto con calma… ”

Paul seziona la torta, mette da parte tutto ciò che non è crema e adesso gusta con enorme trasporto; in effetti, stavolta percepisco il suo apprezzamento come incontrovertibile.

“Vedi, ragazzo mio, questo si fa con l’amore! – rispondo alla tua domanda – lo si deve ‘sezionare’ e individuarlo come parte del tutto, non viceversa! La mia fidanzata, mia moglie, io stesso (parlo in generale)…non siamo la crema!…siamo tutta la torta! Capisci? Se tu chiedi all’amore di essere tutta la torta, stai chiedendo alla crema di fare la panna e pure gli sciroppi del cazzo vari…eh no! Non funziona così! A me, a te, alla tua compagna/compagno che sia, insomma a chiunque, non dovremmo chiedere mai di essere un’unica cosa… perché siamo dolci stratificati, e da innamorati abbiamo diritto solo alla crema! Per il resto…’locomotive diverse!’ Ahahhahaha… questa mi è piaciuta!”

Finito di ridere, Paul Alter, si mette a mangiare avidamente gli altri strati che aveva separato dalla crema…la panna e gli sciroppi vari…

“Paul…hai detto che ti fanno schifo…”

“E lo confermo! Ma ho ricordato per un attimo gli occhi di quel tizio a Parigi mentre la sua ragazza faceva lo spogliarello… emanavano un piacere perverso… Diciamo che sto applicando la stessa dinamica… Ahahahhaha!”

Paul Alter se la ride ancora…
Mi volto, e riguardo la coppia di prima… Lei è alle prese col cellulare, lui lo stesso.
Spero si stiano scrivendo entrambi con qualcun altro, magari non necessariamente per tradire, ma solo per rispettare quelle diverse parti di sé da non sacrificare all’amore, sentimento a cui affidiamo inopportunamente il ruolo di cannibale senza freni di chi ci vive accanto…

Non l’avrei mai detto che mi sarebbero venuti in mente questi pensieri; ma credo siano “perversamente” giusti…

Paul Alter, e le sue analisi metaforiche!… 
Non sempre le condivido, ma funzionano, cazzo!

(autore:diegofanelli) 

“POST OFFICE”, di CHARLES BUKOWSKI – LA MIA RECENSIONE (NO SPOILER)

Nell’eterno appuntamento col guardarsi allo specchio l’opzione è unica, non si sfugge: vediamo noi stessi, le nostre conformazioni esteriori.
Riferendoci però al “come” ci vediamo (e premettendo un’assoluta assenza di perturbazioni “altre” – vincolandoci esclusivamente alle “nostre” caratteristiche di personalità), nei riguardi della persona “gemella” riflessa, agiamo, nel tempo: o tratteggiando nuove righe di grafite di crescita tese a modificarla; oppure, offrendo resistenza a questo atto creativo/sovversivo, lasciandola il più possibile come preferiamo (immobilmente) percepirla.
Già solo questo, sarebbe sufficiente a comprendere quante diverse sfaccettature e implicazioni entrano in gioco…
Abbiamo però premesso una cosa importante, anzi, fondamentale: l’assenza di perturbazioni esterne!
E se queste ci fossero (come difatti ci sono)? Inevitabilmente, implementerebbero la nostra quotidiana autoanalisi specchiata di molteplici fattori, generando layers introspettivi e comunicativi non sempre facili da districare.

“Post Office”, romanzo di Charles Bukowski del 1971, non mi ha colpito particolarmente “nel gusto” (l’ho trovato tendenzialmente monocorde), ma ha avuto il pregio di essere (in termini mentali) interessante: perchè disonesto, cattivo e senza alcuna intenzione di proiettare speranze o redenzioni.
Tale pregio (un po’ bizzarro per la dominante patina moralizzante che avvolge la società), ha avuto la capacità di buttarmi in faccia la piatta, noiosa quotidianità con una linearità (ecco perché monocorde – adesso con merito) alla stessa stregua di un puro “documentario” (il “regista” Bukowski davanti alla macchina da presa…Ciak, si “scrive!”).

Henry Chinaski (soprannominato Hank – una sorta di alter ego dello scrittore – tra l’altro, anch’egli postino per qualche anno) è un fottuto bastardo. Non ci piove.
Si trova, ogni giorno, non solo davanti al suo (di) specchio, ma deve inoltre affrontare tutti quegli altri specchi che perturbano la sua già disgraziata visione di sé: layers di mogli; di figli; di amanti; di scommesse; e soprattutto di datori di lavoro…fino al lavoro in sè, nella sua concezione “obbligativa” e ineluttabile…
L’impiego alle poste sembra essere l’elemento riflettente più distorsivo per il nostro protagonista…succhia ogni energia di Hank, il quale, a sua volta, priva quel demone maledetto della propria potenziale efficienza, agendo da ubriaco cronico…

Ed eccolo qui…l’alcol!…l’ossessione a cui Henry Chinaski affida la sua nera speranza escapologica dalle grinfie della omologazione, che lo vuole conforme al suo gemello riflesso produttivo…il suo gemello riflesso fedele…il suo gemello riflesso marito…padre…
La condizione perenne di ebbrezza è dunque l’abbraccio consolatorio di un dio minore (…quello maggiore, se c’è, sembra fottersene altamente), in un mondo pieno di specchi ubriacanti in cui gli omozigoti di noi riflessi spaventano…e lo fanno duramente!

Il tutto in silenzio…
Lineari…noiosi…“produttivi…”

In questi termini, molto più “mentali”, il romanzo mi è piaciuto e tanto.

(autore:diegofanelli)
(immagine presa da internet)

Quasi in diretta

Vi scrivo quasi in diretta…
Sto facendo girare il cucchiaino; il caffè si mescola allo zucchero fino a fondersi…l’usuale routine.
Penso a questo atto consueto: favorisce una sorta di piccola ipnosi, la mente indotta a vagare senza una meta specifica.
Mi riporta a pochi minuti fa: percorrevo la strada che mi ha portato a questo bar, a questo tavolino.
Ho incontrato dei ragazzi presi nell’atto di entrare semplicemente in macchina, ma decisamente su di giri: qualcuno dall’interno, stava massacrando la melodia di una sconosciuta canzone ripetendo ossessivamente un “What… What… What…”, mentre, con l’aiuto dei suoi amici e muovendo esageratamente su e giù il suo corpo a tempo, costringeva la povera macchina ad oscillare paurosamente. Risate grasse! Se non fossi passato, credo avrebbero continuato a darci dentro; invece, superandoli, ho potuto sentire il solo permanere del “What… What… What…”, ma ad un volume più basso però, quasi dispiaciuto.
Ho riso. Fuori di testa!, ho pensato a loro riguardo, ma il mio tono era di compiaciuto apprezzamento.

È ora di bere il caffè, poso il cucchiaino lateralmente.
Indice e pollice portano la tazza alle mie labbra…sollevo il capo concordemente al movimento del mio braccio…guardo a destra…un uomo, tra i sessanta e i settanta (ad occhio e croce), non messo troppo bene a giudicare dal suo sguardo e dall’estetica della sua energia interna, guarda dritto e intensamente verso la piazza.
È giornata di festa oggi.
I tavolini dei bar sono pieni.
Sembra avere l’atteggiamento di chi ha nostalgia…
Il caffè lascia lentamente la tazza e mi incontra…
Questo mix di momenti di vita così opposti, soltanto per una differente e incolpevole congiuntura temporale, rende amaro lo zucchero che vedo sopravvivere nel fondo della tazza…

Conservo con parsimonia parte del liquido nero in bocca per qualche istante.
Il suo calore si irradia un momento in più tra le pareti, per mia scelta, prima di ridursi ad una eco termica dopo l’atto della deglutizione…
Sorrido…
Penso…
Mi illudo di aver fottuto il tempo sulla corsa a perdere della vita…
Il tempo di un caffè, e continuare ad invecchiare…

(autore:diegofanelli)
(immagine presa da internet)

“SEMBRAVA IL PARADISO”, di JOHN CHEEVER – LA MIA RECENSIONE (NO SPOILER)

Hai presente gli aggeggi con cui sono costretti a camminare i cavalli, quelle coperture ai lati degli occhi per non poter guardare oltre un certo range laterale? 
Ed hai presente, una stazione ferroviaria nella quale, a causa di una pioggia immensa, il sottopassaggio si inonda letteralmente d’acqua?
Bene; poi ci sono io, e un libro di John Cheever in mano. 
Tutto un subbuglio, il rumore della pioggia inesorabile, mi appoggio ad una macchinetta distributrice di bevande in preda allo sconforto. Sbuffo; dò una rapida ricognizione attorno e poi con un gesto automatico apro il libro alla prima pagina: “Questa è una storia da leggere a letto, in una vecchia casa, in una sera di pioggia…”. Mi sembra uno scherzo del famigerato destino: posso solo sentire la pioggia battente, per il resto cosa dovrei fare?: uno sforzo immaginativo non indifferente per evitare di incazzarmi mi sembra l’unica opzione!
Richiudo il libro e rileggerne il titolo, alla fine mi fa definitivamente incazzare: “Sembrava il Paradiso”…
Ma non ho nulla da fare, i cartelli informativi non vengono aggiornati e la gente attorno mi infastidisce; così decido di isolarmi da tutto con questo romanzo (amo leggere, d’altronde!): utilizzo una sporgenza adiacente alla macchinetta, mi ci siedo e tutto ha inizio…
È il secondo libro che leggo di questo autore (del primo non ho alcuna memoria): mi muovo tra le parole con una modalità che sembra pericolosamente ricordarmi la volta precedente: oscillo tra facilità e difficoltà; tra senso e incomprensione; attesa del consolidamento di una storia che mi sembra di capire, per poi ritrovarmi con un grosso punto interrogativo appeso ad un chiodo conficcato nel cervello. Alzo la faccia dalle pagine e mostro la mia espressione arrendevole, stranita dal dubbio, ad un controllore che, senza che io gli abbia chiesto nulla, serra le labbra in segno di impegno e dispiacere “aziendale” (ci aggiungerei imbarazzo); ritorno sul libro, ma ogni volta che un accenno di composizione e coerenza narrativa sembra prendere forma, improvvisamente pare disgregarsi, lasciandomi di stucco… 
Eppure alcune sequenze mi rapiscono! Oh, se lo fanno! 
Si parla di un laghetto, il laghetto dei Beasley. Un certo Sig. Sears, viene descritto pattinarvici sopra, col cuore pregno di nostalgia. C’è una metafora tra il pattinare e il sentirsi a casa che è un meraviglioso incanto…
Vengo distratto dal passare di un bambino che tiene stretta la mano di sua madre mentre nell’altra stringe un giocattolo: sembra un cavallo. Il piccolo chiede alla donna di avvicinarsi al sottopassaggio.
Il pupazzetto sembra guardare nella stessa direzione. E guardo il bambino, sua madre e poi di nuovo il cavallo giocattolo.
Ho già scritto dei paraocchi vero?, beh sono i suoi…
Mi dico (un po’ bizzarramente) che vorrei essere nei suoi panni, senza vista laterale sul resto della confusione, a guardare solo davanti a me, soltanto lo specchio d’acqua. 
La parte iperrazionale nella mia mente sembra salire in cattedra, inserendosi con una “auto-domanda”: “Immagina se un cavallo vero e proprio,  coi paraocchi, si ritrovasse nel cuore della stazione adesso, davanti a questo fottuto sottopassaggio, in quest’esatta circostanza…una volta messo di fronte ad una quantità d’acqua del genere, cosa credi penserebbe che fosse?”
Il bambino mi riscuote da quest’analisi, improvvisamente, perché lancia il suo cavallo nell’immenso pantano! Sua madre si incazza (lo siamo un po’ tutti, per altri versi) e lo porta via; di loro mi rimangono solo le parole di lei che gli urla: “non si fa così!…”
Cazzo! Non si fa così! Giusto! Ma io lo rivolgo alla mia testa, al suo atto iperrazionale…

È passato qualche giorno da allora. Cercando di bloccare quell’imperativo materno in testa, ho letto tutto il romanzo nell’autobus sostitutivo che mi ha riportato a casa…durante la pausa per la passeggiata del cagnolino (quando ho riordinato alcune cose)…e poi a sera, quando,  a letto,  ho terminato la storia.
“Sembrava il Paradiso” di John Cheever: microstorie, piccoli puzzle che a loro volta generano non “una” ma, a mio avviso, “più” storie maggiormente complesse. 
Leggerlo è stato per me un atto di fede: alcune cose non hanno avuto un senso (almeno non evidente) nel gioco generale, ma hanno retto ugualmente il tutto.
È stato navigare in un indefinito piacere: goderne senza la certezza di averlo compreso fino in fondo, come se fosse connotato da una rarefazione che, ancorché limitarlo, ne è stata paradossale e piacevole peculiarità.
La storia del Sig. Sears, di Betsy, di Renée e degli altri protagonisti che alternano vicende private (comuni, quotidiane) a dinamiche interrelazionali ed impegno civico per salvare il laghetto. 
Il laghetto dei Beasley… 
Cosa ne è stato di questo specchio d’acqua, e cosa degli attori che ne hanno stabilito la fine guidati dalla regia narrativa di John Cheever?
Vi invito a leggerlo per scoprirlo… 
Ovunque sarete, però, ricordate: fate un atto di fede e vi ritroverete sempre dove Cheever vi chiede di essere all’inizio:

 “Questa è una storia da leggere a letto, in una vecchia casa, in una sera di pioggia…”

Un atto di fede…
Si, infatti, “Sembrava il Paradiso”…in realtà la normalissima, banalissima vita quotidiana: rarefatta e consistente al contempo.

(autore: diegofanelli) 
(immagine presa da internet)

“La Vera Storia Del Genio Che Ha Fondato McDonald’s”, la mia “strana” Recensione 

Qualche mese fa, spinto dall’arrivo nelle sale cinematografiche del film “The Founder” (la storia di Ray Kroc, fondatore della catena di Fast Food McDonald’s, per intenderci), ed essendo al contempo vittima della sindrome del “difficilmente vedo un film se prima non leggo il libro da cui è tratto”, mi sono ahimè ritrovato nell’ordine: a perdermi il film perché avevo altri libri in coda che consideravo (a ragione) più importanti; a leggere l’autobiografia da cui si basa il film solo qualche giorno fa; e a guardare sul pc il documentario “Super Size Me” di Morgan Spurlock del 2004, nel quale tale Morgan trascorre 30 giorni nutrendosi a colazione, pranzo e cena, esclusivamente di prodotti McDonald’s, prendendo nota dell’impatto di questo esperimento sul suo corpo (e la sua mente).
Mmh.
Potreste chiedermi: perché non vedere “The Founder” immediatamente dopo la lettura del libro anziché dedicarti al documentario?
Beh, in soldoni, avevo bisogno di una controtesi al testo di Kroc. Mi spiego meglio.
A sentirlo nella sua autobiografia (il “mago” nato ad Oak Park, che ha messo su l’impero dei doppi archi dorati, partendo dai frullatori Multimixer), il tutto sembra ricondursi all’ascesa inarrestabile di un uomo verso il successo economico sì, ma senza dimenticare (attenzione): la qualità dei prodotti (what?); di contribuire all’integrazione sociale delle persone e alla crescita e al miglioramento dei quartieri nei quali i punti vendita sorgevano; di favorire il raggiungimento del sogno americano da parte di chiunque avesse avuto (e abbia) voglia di lavorare; e di promuovere molteplici forme di solidarietà sociale.
A parte gli ultimi tre elementi dell’elenco (sotto un certo punto di vista incontestabili e degni di riconoscimento); almeno sulla parte connotata col “what?” (essendo essa maggiormente stridente con l’idea che abbiamo dei cibi serviti dalla catena), avevo bisogno di una voce che facesse appunto da contraltare.
E la testa è andata a quel documentario di cui avevo letto in passato, “Super Size Me”: perché no, mi sono detto, diamogli un’occhiata! Sembra proprio arrivato il momento giusto!
Tuttavia, al termine di questo consapevole e contorto approccio, mi sono ritrovato con molte più domande rispetto alle risposte di cui pensavo mi avrebbe fatto dono.
Ma nessun problema! Anzi!, la confusione ha avuto il merito di dare risalto indiretto al libro di (e su) Kroc, che, altrimenti, avrei derubricato come una descrizione “senza infamia e senza lode” di una storia di successo priva di particolare interesse narrativo. L’autobiografia, infatti, di gusto “letterario” in sé, non ha sostanzialmente nulla. È solo (senza sminuirla sul piano storico-personale), un elenco convinto, tenace e concitato delle prove che si sono parate davanti all’uomo e che egli ha affrontato con una fibra degna di nota verso la realizzazione del sogno milionario. Ma è fredda, priva di cuore e dallo stile “medio” (fornisce giusto qualche curiosità e cambia alcuni paradigmi, tipo quello sull’attribuzione a Ray della responsabilità di aver sottratto, estorto quasi, ai fratelli McDonald’s il loro tesoro; pare che le cose siano andate diversamente, ma sono altri discorsi).
Il documentario di Spurlock, al contrario, è di forte impatto, ed ha un dannatissimo procedere divertente: la sua fisiognomica gioca un ruolo cruciale in tal senso, il suo corpo si “distrugge”, ma non riesci a non guardare a quell’uomo (alle sue espressioni facciali, a quel suo baffetto allungato lateralmente verso il basso) con uno spirito quasi goliardico, giocoso, splendidamente disilluso (pur rimanendo sempre interessato alla causa per cui egli si immola).
Al termine della visione, troveremo un Morgan ingrassato di circa 11 chili (in un mese!), coi valori  del sangue ad altissimo rischio per la salute e con la coda dei medici, ai quali si era rivolto in questa bizzarra avventura, quasi imploranti di smetterla sin dalla seconda settimana.
Cavolo, mi sono detto: al diavolo Ray Kroc e il suo millantato cibo di “qualità”! E le sue opere socialmente benefiche?: un paravento dietro cui nascondere il viso orrido dell’arrivismo economico grazie ad una facciata assolutoria!
Insomma, quel “what?” stava diventando un “Fuck Off!” su tutta la linea!
Poi però mi è tornato alla mente lo stesso Morgan Spurlock a fine documentario dire testualmente: “…so che cosa state pensando: nessuno ti ha chiesto di andare a mangiare quella roba tre volte al giorno, era chiaro che sarebbe andata a finire così!…”, e continuare: “…la cosa spaventosa però è che per molte persone le cose vanno proprio così…forse il mio esperimento sarà stato un po’ esagerato…ma non è stato così pazzesco…”, e poi chiudere: “…ma un’idea pazzesca mi è venuta…perchè non eliminate il Super Size Menu’?”
Questa idea pazzesca, sotto forma di domanda, era naturalmente rivolta al Management di McDonald’s; ma io, mentre mi accingevo a far indossare la pettorina al mio cagnolino e scendevo le scale con lui pronto per la solita passeggiata, stavo iniziando a pensare di rivolgerla a noi stessi in senso metaforico…
Intanto sono arrivato per strada, per un istante tutto mi appare più intenso: c’è una macchina che non mi concede di attraversare perchè il suo conducente ha deciso di correre a “super size” velocità; c’è la signora che entra dal tabaccaio per fare la scorta di sigarette e soddisfare la sua “super size” necessità di fumare; dentro al tabacchi c’è già il tizio che infila un numero “super size” di monetine nella macchinetta da gioco…ed io, rifletto sulle mie “super size” necessità e sui miei “super size” vizi…
Ray Kroc…gran figlio di puttana!, avevi il tuo “super size” sogno: raggiungere il successo milionario creando il tuo impero basato sull’hamburger!
E allo stesso modo Morgan Spurlock!: il tuo “super size” desiderio di provare la tua tesi (la mia controtesi) col tuo “super size” esperimento!
Mi fermo ancora un attimo, guardo il mio cagnolino: ha un desiderio “super size” di raggiungere quella aiuola invogliato da una traccia di odore…
…e mi rendo conto che siamo sempre lì, davanti al solito discorso: viviamo in un mondo imperfetto e noi stessi siamo imperfetti in aggiunta; colmiamo queste imperfezioni con le nostre personali ricette “giganti”… 
Forse allora McDonald’s non è l’unico colpevole, ma, al massimo, il capro espiatorio perfetto per distoglierci dallo scendere nei nostri inferi e fare i conti coi nostri menu’ e cercare di acquisire maggior consapevolezza.
E allora, concediamoci pure il “Super Size”, ma facciamolo con cognizione; non eliminiamolo del tutto, poiché limitarsi sempre e comunque è una forma sottrattiva, “Super Size” allo stesso modo.
Ecco che la confusione si dipana un po’. Ed ecco che posso guardare anche ai nostri limiti e alle nostre contraddizioni con goliardia e un minimo di rilassatezza, come quando Morgan si lasciava andare ad un “mmmmm…” di approvazione mentre addentava un Big Mac davanti alla telecamera del suo documentario “negativizzante” lo stesso Big Mac!
Non è facile, non lo sarà mai. Ma ogni tanto ci si riesce: come stare alla larga dalle tentazioni e allo stesso modo sapersi far vincere da esse.
Bene.
Ora potrò vedere il film The Founder.
Credo di aver fatto la giusta preparazione.

(autore: diegofanelli)
(immagine presa da internet)

Nulla Andrà Disperso

Ieri, tardo pomeriggio, davanti al bancomat insieme al mio quadrupede Muttley.
Una signora, mai vista prima, si avvicina, evidentemente in attesa di fare la stessa operazione. Muttley le va incontro, invitato dal suo atteggiamento favorevole.
Lei alza lo sguardo verso di me, e con occhi lucidi, mi dice: “Io li adoro. Voglio raccontarti una cosa: oggi è il mio compleanno…ed esattamente un anno fa mi è stato regalato un Labrador…”
Fa una piccola pausa, sembra necessaria per evitare di farsi sopraffare dal pianto, poi riprende: “…a Gennaio, nel giro di due giorni, per una malattia l’ho perso…”
Altra pausa, si abbassa per accarezzare di nuovo Muttley.
Si rialza, quasi senza timore di mostrare gli occhi stavolta, mi dice: “Voglio farti vedere una cosa…”, prende il cellulare, sblocca lo schermo; capisco che sta accedendo alla Galleria Fotografica (nel frattempo il bancomat è libero, entrambi lo sappiamo, ma il momento che stiamo vivendo sospende tutto il resto)…
“Eccolo qui, siamo io e lui…”;
“Qui invece è con mia madre…tra l’altro mia madre è malata e lui era il mio…”, credo volesse dire “sostegno”, ma le parole le si strozzano in gola.
“E questa è una foto scattata una settimana prima che morisse…l’ho lasciato dal veterinario per capire cosa avesse e sono tornata che l’ho trovato morto…”
Ci siamo guardati…
Io, a mia volta, ho saputo solo dire “mi dispiace…”, mentre i suoi occhi dicevano tutto il resto.
Mi indica gentilmente che è arrivato il mio turno di entrare, scusandosi di avermi fatto perdere tempo.
Le chiedo come si chiamasse il suo amico eterno…

“Argo…”

Ora, lo so bene che la gente può stabilire interazioni empatiche in diversi modi, per cui non è mia intenzione stabilire una classifica che determini una competizione tra “amanti e non” degli animali, sarebbe stupido.
Dico solo che la vicinanza di un animale può favorire in noi lo sviluppo di peculiarità più “delicatamente istintive”: poche parole (per noi l’equivalente del loro particolare mutismo) e maggiore scambio emotivo…
Di gioia e dolore.

Ciao Argo…

NOTA DELL’AUTORE: la storia raccontata è vera. Ringrazio, con tutto il cuore, la signora sconosciuta per aver condiviso il suo amore per il suo meraviglioso Argo. Sono convinto che l’affetto tra di loro non andrà disperso.

(autore: diegofanelli)
(l’immagine è presa liberamente da internet, non raffigura Argo né la signora)

#primalastoriapoilafoto episodio 2

Volete conoscere una piccola e strana storia?
Quella che vedete in foto è una parte della villa comunale di Francavilla Fontana, il percorso centrale.
L’ ho scattata la settimana scorsa, mentre passeggiavo.
Per addentrarvi al meglio nel racconto però, dovrete fare uno sforzo d’immaginazione; pronti?
Dunque, voi state osservando questo vialetto, giusto? Ma se vi chiedeste cosa c’è alle mie spalle?
Alcuni saprebbero rispondersi naturalmente, basta esserci già stati, ma è qui che dovrà intervenire la vostra fantasia…
Invece di chiedervi cosa “c’è” alle mie spalle, chiedetevi cosa “c’era…”

Era una sera di quasi 30 anni fa, una sera di notizie concitate, di quella concitazione che a volte gli adulti utilizzano per enfatizzare un fatto, renderlo plateale; e se non fosse che ad ascoltare quelle notizie c’era il me stesso da bambino, quel loro atteggiamento sarebbe stato derubricabile a semplice e innocuo protagonismo.
Invece ero lì, iniziai ad ascoltare, e operai anch’io uno sforzo d’immaginazione…

– Sai cosa sta succedendo in villa? – parlavano tra di loro.
– Cosa?…
– Mi raccomando, non ci andate!…
– Che sta succedendo?…

Non so come mai, ma la cosa mi terrorizzò!
Sentirli con quel tono perentorio!
Adesso, non aspettatevi che io vi dica come mi ci ritrovai in quella maledetta villa qualche sera dopo; non ricordo di preciso, ma ero lì, sì, proprio lì!
E mi trovavo nel punto esatto situato alle spalle del me che avrebbe scattato la foto che guardate oggi.
C’era una fontana (tra i due me); c’è anche adesso, ma quella sera la guardavo tremando…
La gente correva; anzi, fuggiva…
Cosa succedeva?
Alcuni tizi raccoglievano l’acqua della fontana in alcune buste, quelle vuote delle patatine, e queste ultime divenivano sacchetti per lanciare gavettoni a chiunque si trovasse nei paraggi!
La gente correva, fuggiva. Chi giocava rideva, mentre chi subiva lo scherzo urlava! Correva!
Io non riuscivo a scrollarmi di dosso un senso di paura e di impotenza, come se stesse accadendo qualcosa di pericoloso.
Come se quei ragazzi fossero clown ambigui tra scherzo e cattiveria, e questa avesse la meglio.
Incredibile quanto una notizia, una storia, cambino forma e quindi senso a seconda di chi la divulga e di chi la recepisce.
A seconda degli stati d’animo…

Bene, tornando alla foto e ai giorni nostri ora sapete cosa “c’è” alle mie spalle: una fontana.
E sapete quindi anche cosa “c’era”…
Sempre la stessa fontana, ma anche un bambino che immobile la guardava con terrore, quello che i clown la utilizzassero per “non” far ridere…

Così, qualche giorno fa trovandomi lì per caso, ho ricordato tutto, ho scattato la foto e mi sono voltato indietro…
Oltre la fontana, ho sorriso a quel bambino, sforzandomi di togliere la maschera…
Restituendogli, spero, un clown fatto per ridere…

Maledette e amate parole!
Amata e maledetta fantasia!

FINE.

(autore: diegofanelli) 

Episodio due di #primalastoriapoilafoto

PS: e i vostri posti, le vostre storie?
Perché non condividerle?

Il flusso di Darryl

Cammina pure col cappello nero, Darryl, mentre una strana coltre di pioggia si manifesta attorno al tuo corpo. Il fumo sale dai comignoli bianchi, si sente un odore di lontana carne bruciata.
Tu cammina, lascia che siano le note a cuocersi nella fucina delle tue orecchie distese. I Mogwai e la loro Wizard Motor. Solo suono, che fa vita. Vita, ciò che questa signora vorrebbe se non fosse impegnata a guardar di traverso i tuoi occhi nascosti dalla visiera. Possiamo spiegare le cose, Darryl? Possiamo permetterci di ideare un vocabolario di espressioni che spieghino altre espressioni? Sarebbe meglio comprendere e non spiegare. Spiegare ti rende luogo alto e il resto è basso. Comprendere invece unifica, diluisce tutti in un unico battito formalmente definito come umano, informalmente distinto nelle diversità che caratterizzano l’unico che siamo. E comprendere significa associare. Cos’è l’amore, Darryl? Devi comprenderlo adesso, mentre cammini col cappello nero sotto una coltre di pioggia manifesta. Sarà per caso l’amore questa coppia sulla panchina rossa scura, legno su cui posano le loro pelli che oggi si raffreddano e ieri si cuocevano di sesso e passione? O è una fluida conformazione di tiepido gelato che si scioglie e che scende sulle dita che abbracciano un cono? L’amore, può essere un misto di ingredienti compatti e pseudo-naturali abbracciati in un gelido gusto? La verità? La verità è l’unione delle due cose, Darryl. L’amore non è solo la coppia e non è solo la morfologia di un denso liquido dalla eco di un gusto naturale caduto sulle tue mani dall’orlo di un cono. Ma è il loro unirsi, per associazione. Si, Darryl. Non cercare di spiegare. Comprendi. Cammina pure col cappello nero, mentre una strana coltre di pioggia si manifesta attorno al tuo corpo. Quando l’acqua distinta in gocce dalla visiera zampillerà sul gelato ne macchierà la forma e ne spingerà pezzi fluidi in vicoli umidi sino al tuo palmo e la stessa pioggia bagnerà le cosce di questa donna su legno rosso scuro raggiungendone l’interno profondo per righe curvate dalla sensualità mista a carne di femmina, se lei alzerà lo sguardo e l’incrocio tra mille ovuli di vapore acqueo non distoglierà l’incontro con il tuo, allora comprenderai…
L’amore è associazione. Ma non solo di questo. Di tutto. Di voglia, di incontro, di tradimento e anche di ciò che non ha senso.
Anche di ciò che non ha senso, Darryl…
Come procreare per poi sapere di destinare alla morte. Non smettiamo comunque di farlo…
Metti sempre qualcosa che non ha senso in testa, Darryl. E falla convivere con tutto il resto…
Tu non smettere di camminare…
Mentre una strana coltre di pioggia ti bagna, come comprensione che cade e ti invade…
Associa pioggia e vita, Darryl, stai vivendo e un giorno morirai, un giorno morirai e stai vivendo…
Che senso ha un gelato in una riflessione, Darryl?
Comprendilo…
Associalo…

(autore: diegofanelli)
Canzone suggerita: Wizard Motor – Mogwai
Immagine presa da internet