Piccolo inno alla lettura

Questa mia,

vuole essere un piccolo inno alla lettura, al suo essere prodiga di novità conoscitive.

Le è sufficiente ricevere attenzione: il nostro sguardo curioso sulle sue erotiche forme di foglio bianco; ed essa, ci concederà la creazione di nuovi spazi mentali nei quali inserire codifiche e decodifiche della realtà.

Ciao a tutti, buone letture!

– diegofanelli –

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L’errore di cui ero convinto

L’ errore di cui ero convinto, vuole essere, nel suo infinitamente piccolo, un atto di condivisione di un momento tragico-esistenziale.

Non si è stati gli unici, e soprattutto non si è gli unici, ad aver provato la sensazione di quell’errore di valutazione: pensare che tutto fosse finito.

Vita e ancora vita ci attende!

Con tutte le sue infinite contraddizioni, ma sempre vita!

.diego.

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Rimbaud

L’ estetica che si dona, la sensualità che si mostra…

Al pari di un Rimbaud, alla stregua di un Kandinsky, con esse possiamo:

narrare romanzi, colorare tele, quanto quelli – eroticamente, pornograficamente, e pulitamente -, possono eccitare.

(autore: diegofanelli)

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Parole Mie Dannate E Belle

Dalla mia parte di agnostico, è sempre un brivido particolare essere sorpreso.

Dal nulla, ieri, rispondendo ad un mio semplice atto di goliardia, una ragazza sconosciuta mi tocca il braccio e mi dice: “Resta come sei…”

…che parli per bocca di lei o, nel caso davvero non esista, che sia conferma che quel nulla che ci sottende sia (solo) inaspettata dolcezza; è questa l’illusione dubbia e dubitativa di un Dio che mi piace ubriacarmi d’avere.

(autore: diegofanelli)

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Margaret e Foster

Dal vento e dagli odori d’autunno, Margaret trovava ispirazione; e Foster, l’uomo nel giardino accanto, sferrava colpi ai suoi avversari immaginari.

Restava una manciata di giorni all’incontro e i metalli minuscoli che Rent l’avversario, avrebbe inserito nei suoi guantoni violando ogni etica, erano in sadica preparazione…

Sulla tela dipinta Margaret firmava la sua dedica e Foster le sorrideva imbarazzato; l’allenamento finiva e il giardino accanto tornava alla quiete…

La tempesta trovava sfogo dopo la manciata di giorni: sul viso di Foster, dove gli orpelli tragici dei disegni curvi delle traiettorie scorrette di Rent crearono solchi dolorosi e barocchi, lasciandolo sconfitto…

Forse è per questo che la tela, nella prima notte in casa di Foster, spontaneamente già si crepava; e i colori seppur allegri, facevano da subito malinconia…

(autore: diegofanelli)

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SMARRITO CANE, di PAULS TOUTONGHI, LA MIA RECENSIONE (NO SPOILER)

“Non riesco a pensare ad alcun bisogno dell’infanzia altrettanto forte del bisogno della protezione di un padre” ( Sigmund Freud, 1929, Disagio della Civiltà)

Il padre di Virginia ha ucciso il suo cane.
Lo ha messo sotto con la macchina.
Ok, lo ha fatto accidentalmente, ma si è liberato del corpo chissà come e chissà dove impedendo a Ginny (come veniva chiamata più spesso Virginia), di dirgli addio. Nessuna questione, un muro di gomma indifferente suo padre, per non sentire le rimostranze della moglie – una dipendenza da alcol catastrofica -, sempre avversa nei confronti del cane e della figlia in primis, che giudicava priva di alcun valore e che sottoponeva a continue vessazioni.
La piccola cade in depressione, pensa costantemente al suo fedele amico, a quando la notte per difenderlo dal freddo, poiché costretto a vivere fuori casa (altra folle decisione di sua madre), sgattaiolava segretamente, lo faceva entrare in camera sua fino a dentro al suo letto; e gli leggeva storie, mentre il cane la guardava sereno, tranquillo di avere ogni cosa potesse desiderare: la sua padroncina e la sua voce che, seppur risuonasse di cose incomprensibili, non importava: la sua dolcezza e il suo odore erano indizi oltremodo sufficienti per darle totale fiducia.

John, Peyton e Fielding sono rispettivamente marito, figlia e figlio di Ginny. Sono passati tanti anni e quella bambina è diventata donna, moglie e madre. Ha costruito una famiglia, e dell’esperienza dolorosa, traumatica della sua infanzia ha voluto fare tesoro: dove c’erano state crudeltà, disprezzo e incomprensione lei ha risposto riempiendo la sua casa di tenerezza, attenzione e amore per gli umani e per gli animali (del tutto paritari per dignità ai primi).
Ma un giorno, tutto questo equilibrio viene stravolto dalla scomparsa di Gonker: il golden retriever di Fielding.
La famiglia è sconvolta, particolarmente Ginny e il figlio, la prima perché vede reinscenarsi una vicenda gemella di ciò che aveva vissuto: una specie di eco che dal passato tornava per non darle pace, la paura di non essere all’altezza di difendere chi crede ciecamente in lei; il secondo perché Gonker aveva rappresentato molto per lui in un momento delicato della sua vita e adesso sentiva tutta la responsabilità di non aver ricambiato altrettanto.
Si apre una ricerca ricca di dettagli, e dalla quale si dipanerà molto altro fino alla fine della storia.

Ovvio immaginare che tra le pagine del libro ci sia la continua messa in evidenza della domanda: perchè tutto questo per un cane?; e, di conseguenza, cosa sono per noi queste creature?; cosa pensano, qual è la loro rappresentazione delle cose, del mondo? E soprattutto: quale il loro ruolo nelle nostre esistenze?
Domande legittime, affascinanti, aperte a numerose valutazioni a cui chiunque abbia a che fare con loro dedica almeno parte della propria più o meno dotta speculazione interattiva.
Non so se riusciremo mai ad avere delle risposte esaustive, ma una cosa è certa: il loro entrare in contatto con noi in un modo così inusuale: senza parole, attraverso diverse categorie di segnalazione, con particolari e sorprendenti atti di misteriosa consapevolezza, sembra aprirci scenari a cui la nostra coscienza ha accesso forse solo nei sogni o nelle richieste (soddisfatte) profonde di aiuto, quando il superfluo della nostra cattedratica ciarleria viene messo da parte, strappatoci d’imperio dalle profonde nostre tristezze, persi nei cunicoli bui di così tanta controversa esistenza e ridotti quasi a elementari cellule bisognose esclusive d’amore.

Quei “quattrozampe” sembrano depositari di passepartout magici a forma di occhi dalla tenerezza immensa, capaci di sostare tra i tasselli vuoti del puzzle della vita, riempirli e renderli straripanti di un unguento che guarisce e regala eccedenza.
E a me piace pensare che tale eccedenza sia la porta di una felicità che ci attende giornalmente e verso la quale per goderne appieno non dobbiamo far altro che essere ben disposti; come loro, quando mai domi alla stanchezza, ci attendono dietro le porte delle nostre case; o come Gonker, del quale però, non posso svelarvi altro…

Tutta la storia (storia vera) è raccontata dal marito di Peyton, Pauls Toutonghi, l’autore del romanzo. Scrittura asciutta e lineare.

“Le ragioni per cui si può voler bene a un animale come Jofi sono la simpatia aliena da qualsiasi ambivalenza, il senso di una vita semplice e libera dai conflitti, la bellezza di un’esistenza in sé compiuta.” (Sigmund Freud, a proposito di Jofi, cane Chow Chow, a cui era molto legato).

NB: cercate in rete qualcosa del rapporto tra Freud e Jofi: interessante.

(autore: diegofanelli)
(immagine presa da internet)

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Maschere dure

Ci sono poi le persone che camminano con maschere dure, incollate sull’epidermide da sempre;

hanno esattamente le sembianze del viso che coprono, ma rispondono al compito di modificarne gli attributi a favore di una rabbia arrogante.

Faccio davvero fatica ogni volta a ricordare di guardare oltre la maschera, e puntare solo all’esistenza dolente che essa sta difendendo;

Ma è talmente fastidioso uno sguardo arrabbiato per nessun apparente senso, che la nostra umanità si perde come si è persa quella della persona che camminava….

In questo circolo vizioso ognuno dirà, e dice sempre, la sua parziale verità…

(autore: diegofanelli)

L’UOMO IN FUGA, di RICHARD BACHMAN, la mia recensione (NO SPOILER)

72.
Le ore in cui Richard Bachman afferma di aver scritto L’Uomo in Fuga.
E da un punto di vista prettamente qualitativo infatti, ad essere onesti, non si tratta di chissà quale opera. Non che ci sia necessariamente una diretta corrispondenza tra quantità di tempo impiegato e peso specifico dell’ideazione; ma dopo aver letto il romanzo, quel numero assume un potere piuttosto indicativo.
2025.
Anno di ambientazione; distopia; la popolazione è divisa nettamente in due classi: chi vive riccamente (e decisamente al di sopra delle proprie necessità) e chi sopravvive a stento nella merda, violenza e assenza di alcun tipo di speranza. L’utopia della scalata sociale e della rivincita può essere miracolosamente vinta solo partecipando ad uno dei diffusissimi reality game e quiz televisivi, tra i quali non mancano premi immensi, a costo però di mettere in gioco letteralmente la vita.
3.
I componenti della famiglia Richards: Ben – il protagonista -, sua moglie e la loro figlia gravemente malata. Fanno parte della categoria sociale che vive nella feccia. Ben non sopporta di vedere la sua bambina destinata ad una morte lenta e, non potendo permettersi i farmaci di cui la piccola avrebbe bisogno, decide di partecipare al reality che dà il titolo al romanzo: L’uomo in Fuga (Running Man, nell’originale).
30.
Questi i giorni in cui sarà fuggiasco facendo da bersaglio mobile per i cosiddetti Cacciatori, energumeni che hanno carta bianca: trovarlo e ucciderlo. Il tutto in diretta tv; se Richards sopravvivrà oltre questo tempo vincerà il premio in palio: un’immensa fortuna; altrimenti, beh, avete capito: zero sarà il numero che rappresenterà la quantità di esemplari “Ben Richards” nel mondo.
Eccola qui sostanzialmente la storia. È scritta bene, non c’è che dire, ho passato qualche ora piacevole nel leggerla, ma nulla di più.
’80 – ’90.
Gli anni in cui tra i film che passavano alla tele, mi imbattevo nella pellicola de L’Implacabile, con Arnold Schwarzenegger: una trashata della quale la cinematografia avrebbe potuto fare a meno, eppure io, vittima dei miei occhi di ragazzino, la guardavo e riguardavo frequentemente.
2017.
Anno in cui ho scoperto che tale film nasceva da una libera interpretazione proprio de L’Uomo in Fuga.
101.
I minuti necessari a rivedere L’Implacabile.
5.
Le ore, circa, che son servite a leggere L’Uomo in Fuga.
2.
Come la coppia libro e film, elementi che non c’entrano nulla o veramente poco tra loro: il secondo racconta appena “qualcosa” del primo…
Leggerlo conoscendo già la pellicola, però, ha applicato alle parole del romanzo – per mezzo della “materialità tridimensionale” dell’opera cinematografica – una forza modificante tesa all’aggiustamento continuo e alla creazione, quasi, di una storia “terza”, o meglio, di una riflessione “terza”, la seguente…
Ben Richards è un 1, ma è come se diventasse un 2 nei fatti, suddividendosi da un lato nella fisicità plastica e immobile dello Schwarzenegger sullo schermo e, dall’altro, nella caratterizzazione mentale del Richards del racconto. Due personaggi diametralmente opposti. Un po’ come se dall’attore Austriaco fuoriuscisse un’istanza più seria, necessaria per rendere “stabile” la storia di Bachman; un ibrido che dapprima fa sorridere per la sua grottesca abilità recitativa inserita in una sceneggiatura altrettanto improbabile, ma che dopo, origina un’immagine doppia di sè, la quale lascerà che la seconda, inesorabilmente, se ne stacchi, con dolore e sollievo.
E c’è di più.
Ad avvalorare e stimolare questa mia fantasticazione giunge a metterci lo zampino anche la realtà: si perché Richard Bachman non esiste! O, affermando meglio, si tratta di uno pseudonimo.
Da Bachman (un altro 1), seguendo la stessa “fisiologia magica” di quella forza modificante di cui prima, potremmo veder crearsi prima una bolla sul viso, che poi crescerebbe, crescerebbe ancora a dismisura, fino a deformarne le fattezze e a definire uno sdoppiamento quasi completo dando alla vita un gemello Stephen King in persona (un 1, che sarebbe anche un 2), che continuerebbe a sua volta ad ingrandirsi perché il “vero reale”, fino ad inglobare e a far sparire Mr. Richard Bachman.
Perché questo gioco continuo di numeri e queste bizzarre associazioni trasformanti che spersonalizzano per poi ri-personalizzare personaggi, persone e storie?
Perché nel romanzo c’è una frase che mi ha colpito profondamente:
“…Ripetete il vostro nome per più di 200 volte e scoprirete che non siete nessuno…”
200 volte…: quante sono le ore da dedicare alla scrittura per ottenere qualcosa di valido? E quando arriverà l’anno in cui nei reality show si metterà a rischio sul serio la propria vita per ottenere qualcosa di cui avremo uno sfrenato bisogno? Quale sarà il numero di componenti a cui daremo la legittimità di essere famiglia? Quanti i giorni in cui un essere umano dovrà mantenere lo status di fuggitivo per poter essere lasciato finalmente libero di perdersi? Quali gli anni in cui ho visto film idioti convincendomi che avessero un valore? Erano e saranno solo quelli della mia pre-adolescenza o continuerò a farlo randomicamente in futuro?
E quello in cui viviamo…sarebbe stato considerato un anno distopico agli occhi di un Mr. Neanderthal nel caso avesse avuto capacità di porsi questa stessa fottuta domanda?
E infine…davvero posso essere un nulla, un nessuno, pur conoscendo quasi da sempre il mio nome?…
Che splendida esperienza la lettura abbinata all’immaginazione!: possiamo terminare un libro piacevole – ma tutto sommato mediocre -, e avvertire comunque la sensazione di aver fatto un buon lavoro di crescita personale.
Perchè alla fine, non è questo quello che conta indipendentemente da cosa ha mosso questa meravigliosa prerogativa?

(autore: diegofanelli)
(immagine presa da internet)

MOTEL VOYEUR, di GAY TALESE – LA MIA RECENSIONE (NO SPOILER)

Gay Talese, famoso giornalista americano, riceve nel 1980 una lettera anonima: il mittente, approfittando dell’imminente uscita di un libro controverso dello stesso Talese intitolato “La Donna d’Altri” (su sessualità e costumi ad essa associati), proponeva di metterlo a parte di un segreto molto particolare.
L’uomo, aveva acquistato un Motel, nel quale, sfruttando una caratteristica conformazione del solaio, aveva praticato dei condotti terminanti in quelle che dall’esterno sarebbero sembrate delle semplicissime celle d’areazione; nei fatti, invece, punti di osservazione dei suoi ospiti violati nei segreti dei loro comportamenti più nascosti e primitivi: nella loro intimità, durante i rapporti sessuali consumati quando il mondo veniva relegato oltre la porta!
Talese è stupito, ma il tizio, prevedendone evidentemente la reazione, lo rassicura affermando che la sua ossessione voyeuristica è da ascriversi ad un esclusivo interesse scientifico per le dinamiche umane, non all’espressione di un disturbo che lo affligge.
Di per sé, senza ulteriori dettagli, l’argomento sarebbe stato pruriginoso a sufficienza per scatenare curiosità (almeno la mia!); ma se a tutto questo ci aggiungiamo che Talese è considerato tra i principali fondatori del cosiddetto “New Journalism” (un modo di raccontare fatti realmente accaduti,tramite il ricorso ad una prosa romanzata), il desiderio malizioso di conoscere i misteri svelati da quell’uomo non poteva che aumentare, mentre mi accingevo alla lettura.
Sostanzialmente: cosa di meglio del sapere che cotanto pepe autorale avrebbe raccontato un argomento già così stuzzicante?
Preso da un istinto improvviso, ho messo da parte il libro e mi sono fiondato su Google scrivendo automaticamente le seguenti stringhe di ricerca in ordine più o meno casuale:
“…motel…voyeur…talese…book…america…”; e poi, ho cliccato direttamente il termine-pulsante “Immagini”…
Volevo GUARDARE!
Guardare!, capite?, il Motel, e tutto quanto potesse offrirmi un’esperienza visiva anziché una di lettura (sembravo essere andato già oltre!, come se le parole si fossero rese ormai insufficienti).
Ho iniziato a immaginare, giocando coi livelli delle mie chimiche neuronali, in una sorta di eccitazione interessata e carica di voluttà.
Passando da una fotografia all’altra, in una delle didascalie salta fuori un nome: “Gerald Foos” (che avrei scoperto essere il Voyeur); e poi, in un’altra, la faccia di Talese e la copertina di un libro, o meglio “del” libro: “Motel Voyeur!”.
Così, mi sono sorpreso a sorridere compassionevole a me stesso: “Oh cazzo, ma è esattamente il libro che dovrei leggere!”
Leggermente imbarazzato, sono ritornato alla copertina, ho passato la mano sulla superficie, e mi sono accorto di sentirmi meno distante dall’uomo Gerald Foos…molto meno, rispetto a quanto il mio istinto moralizzatore e autoedificante avevano apriori stabilito!
Ok, è vero che ciò che il Voyeur commise fu un atto, moralmente, quantomeno discutibile: inganno, violazione della privacy (e probabilmente chissà quanti altri reati connessi); ma, non c’è dubbio che alcuni spunti offerti dalla sua storia faranno tremare molte delle nostre certezze, favoriranno una (legittima?) speculazione circa i nostri usi e costumi, fino alle radici valutative di cosa consideriamo “giusto” o “sbagliato”.
Pensate:
– Foos considerava i suoi atti come non invadenti della privacy di nessuno; egli affermerà: “se i soggetti non sanno di essere osservati, nulla viene violato!”;
– Ripeterà spesso (lo abbiamo già scritto) che non è un disturbato, ma semplicemente un uomo spinto da un interesse viscerale per gli aspetti comportamentali umani;
– Dirà, in anticipo, tutto a sua moglie Donna, e questa (attenzione!), diverrà sua complice nella costruzione e nella conduzione delle sue attività di Voyeur!
Mi fermo. Non voglio svelare altro. Ma capite che già con questi soli tre punti ci sarebbe da discutere molto.
Eppure, il libro conterrà anche di più: interrogativi etici che ci tenteranno continuamente mentre saremo in bilico tra il giudicare e il pensare; contestualizzare e gridare allo scandalo; rimodulare i nostri pensieri sociologici sulla sessualità e come questa viene percepita e comunicata; e molto, molto ancora…
Mi vengono in mente le parole di Steven Marcus, biografo, saggista, e professore di lettere alla Columbia University, citato da Talese: “l’uomo non può vedere mai troppo della natura umana!”.
E, sempre tramite Marcus, una domanda: “Perché è orribile per chiunque guardare un uomo e una donna che chiavano, quando ogni uomo, donna e bambino lo farebbero, se ne avessero l’opportunità? La copulazione è una cosa sconveniente da fare? Se no, perché è vergognoso vederla fare?”

Gran bella domanda!

Per concludere: Gay Talese è stato molto criticato per l’uscita di “Motel Voyeur”, non solo per l’oggetto raccontato, ma anche per una serie di controversie legate alla credibilità di Foos e della conseguente credibilità del “fact checking” dello scrittore e del suo giornale di riferimento, il “New Yorker”.

Se devo essere onesto fino in fondo, il libro merita di essere letto non tanto per l’aspetto descrittivo-narrativo in sé (che confesso non avermi particolarmente entusiasmato); ma, appunto, per le domande che smuove e per l’enorme discussione collaterale che ha fatto nascere nel mondo (che vi incoraggio a cercare e da cui farvi prendere dal vortice sul web): dati certi e dati da verificare, errori e correzioni a posteriori. Insomma, mistero e realtà che si abbracciano, convenzioni e riflessioni sull’essere umano, rendendo di gran lunga più succulento il cibo letterario dentro cui è inscritto.
Ne è prova il fatto che dell’opera siano uscite diverse edizioni: io ho letto l’ultima, quella definitiva con un’opportuna nota informativa all’interno.
Ma in fondo, è proprio questo che, ai miei occhi, l’ha resa speciale: ha solleticato la mia parte meno elevata mettendomici a confronto e costringendomi a doverla accettare dichiarandomi a mia volta un Voyeur…

Perché in fondo,secondo innumerevoli modalità, Voyeur, non lo siamo un po’ tutti?

(autore:diegofanelli)
(immagine presa da internet)