Vivo al primo piano di un condominio, in una via molto trafficata.
Da qualche anno questa via è diventata uno dei centri della movida cittadina – specialmente quella estiva -, complici i locali aperti man mano e la conformazione della stessa: un lungo corso con un vialetto alberato al centro, creato quasi apposta per accogliere tavolini su cui la gente siede per la maggior parte dell’anno, ordina cibi, bevande e fa le classiche quattro chiacchiere.
Anche i proprietari di cani, io tra questi, ne approfittano per portare a zonzo i propri amati “quattrozzampe”…
Se ci venite con regolarità, avrete notato la presenza piuttosto costante di una ciotola piena d’acqua e una montagnetta di croccantini, sempre sotto lo stesso albero.
Ce li metto io…
Ho iniziato a farlo che era estate e faceva caldo, anzi caldissimo; camminavo con il mio fedele amico e pensavo che fosse fortunato protetto tra le mura domestiche con acqua a disposizione e cibo quotidiano al riparo dal solleone; rivolsi così un pensiero ai randagi sfortunati: cosa mi sarebbe costato, mi chiesi, mettere loro a disposizione un po’ d’acqua e un po’ di cibo? Giusto qualche minuto del mio tempo, un po’ di accortezza e un irrisorio sacrificio economico nell’acquistare del mangime adatto. Immaginare un cane assetato, affamato, in lotta contro tutto e tutti per la sopravvivenza e stremato dal sole che, nel suo girovagare speranzoso, veniva a trovarsi inaspettatamente davanti a questo punto di ristoro; pur sapendo di non cambiargli definitivamente l’esistenza, mi faceva sentire più umano.
Così, iniziai ad occuparmi della faccenda.
Un cane scuro, di taglia media, col trascorrere dei giorni cominciava ad essere più presente; provai a farci maggiormente caso finchè notai che aveva eletto a sua residenza un luogo in particolare: l’area nei pressi della porta di un’abitazione quasi di fronte casa mia.
Quando non camminava sul vialetto era sempre lì: solitario, accettava la compagnia di un solo cagnolino, il quale, indovinate un po’, abitava proprio all’interno della casa a cui si accedeva quasi saltando il mio nuovo amico. Quando quello entrava dentro, lui rimaneva fuori, non cercava di infilarvisi… Un’immagine che a volte mi faceva sorridere, ma per la maggior parte del tempo mi stringeva il cuore; sembrava che dicesse: “ah tu adesso vai dentro casa…dai tuoi cari…io sto qua eh! ti aspetto, cerco di non dare molto fastidio…tu però non farmi aspettare troppo, così poi giochiamo…mi accontento di stare qui e sentire che ti coccolano…è un po’ come se lo facessero anche a me…”
Iniziò a riconoscermi; penso che potendo attribuirmi un nome tramite il suo sguardo, probabilmente mi avrebbe imposto qualcosa del tipo “quello-che-porta-acqua-e-croccantini”: si avvicinava mentre eseguivo i gesti necessari, ma non si faceva accarezzare; arretrava e attendeva che io mi allontanassi prima di bere o sgranocchiare qualcosa. Poteva accadere che si distanziasse di meno, questo sì, ma preferiva comunque mantenere un certo distacco, rimanendo diffidente nonostante percepissi che mi aveva categorizzato diversamente da tutti gli altri.
Dico questo perchè qualche volta diveniva aggressivo: se qualcuno gli si avvicinava eccessivamente o con una certa inconsapevole rapidità mentre era nella sua zona, poteva accadere che gli abbaiasse contro (e non nego che questa cosa fu oggetto di alcune dispute tra i residenti); io però, pur comprendendo che la situazione poteva risultare pericolosa per l’incolumità dei passanti, non riuscivo a non comprendere particolarmente lui: dal suo punto di vista cercava solo di difendere quel poco, quasi nulla che aveva; come chi ha sofferto e soffre tanto e protegge con i denti il suo minuscolo, scomodissimo, posto nel mondo.
Il tempo passava: agosto, settembre, ottobre, novembre…di pari passo col cambiamento delle temperature potei notare un cambiamento nel suo modo di accucciarsi: sempre più raggomitolato su sè stesso, stretto stretto.
Qualcuno gli aveva messo una copertina a terra, ma non credo lo aiutasse molto contro l’inverno.
Provavo paura per lui, per il freddo che aumentava ogni giorno di più. Particolarmente la sera lo vedevo tremare; qualche volta mi seguiva, sempre a debita distanza, oppure si fermava davanti alla ciotola mentre la riempivo…scosso dai brividi, pareva dirmi: “rimani un po’ qua con me? mi accontento di poco…qualche secondo; se puoi, anche qualche minuto…non essere solo mi riscalda…”; io rimanevo lì un pochino, gli parlavo cercando di rassicurarlo che da me non aveva nulla da temere; quand’ero lì per andarmene cercavo sempre di raggiungerlo per fargli una carezza, sempre molto lentamente sussurandogli parole dolci. Ma niente, indietreggiava, magari con minor velocità rispetto agli inizi, ma non riusciva a fidarsi del tutto. Come se volesse comunicare: “vorrei stare con te, la tua compagnia mi aiuta a dimenticarmi per un attimo del freddo…ma non so come fare, non so come comportarmi…e se mi fai del male?…”
Era tenero e terribilmente malinconico.
Quell’inverno arrivò la neve…
Ed arrivò la paura definitiva: come farà a superare le notti steso sul ghiaccio ed esposto a temperature così gelide?
In macchina, tornavo a casa dal lavoro: la scritta Decathlon campeggiava alla mia destra; fu un istante, girai prendendo l’uscita e mi infilai nel parcheggio dell’ipermercato.
Ne venni fuori con 4-5 sacchi a pelo.
Mi rimisi in macchina. La caduta dei fiocchi si trasformò in tempesta e io pensavo a lui, cercavo di stabilire un contatto telepatico: “resisti, sto arrivando…non mollare!”.
Saranno state le 6.30 del pomeriggio quando arrivai, era già buio e nessuno in giro.
Solo lui su quel vialetto senza più tavolini e nessun chiacchiericcio, raggomitolato in una ciambella di corpo vivo che rischiava di morire tra mille spilli di gelo.
Parcheggiai lì vicino, scesi dall’auto e mi avvicinai lentamente con il primo dei sacchi a pelo. Non si mosse, mi guardava, gli leggevo le parole: “ho freddo, non riesco a scappare…non mi farai del male, vero?”
Gli parlavo dolcemente, più di tutte le altre volte, e iniziai a costruirgli attorno una specie di castello, caldo il più possibile.
Lui modificò la sua posizione di poco, quel tanto sufficiente per mettere un sacco a terra sul quale si posò immediatamente. Terminai di erigere le mura del castello e poi lo coprii con l’ultimo dei sacchi, tipo coperta. Gli spuntava solo la testa…
E fu in quel momento che ci guardammo come forse mai prima…
Occhi negli occhi…
Muso con barba…
Odore con odore…
Tesi la mia mano verso di lui, e lo accarezzai…
Si fece accarezzare, sì…
Chiuse le palpebre, come per dire: “è questa una carezza?…che bella che è!…”
Mi staccai dalla sua testolina fredda, e stavolta fu lui a guardarmi come per dire: “hey, ti allontani? non avere paura, non ti faccio niente…”
“…non ti faccio niente…se non chiederti di stare un po’ con me…”
“…ci rimani un po’ con me?…”
…
…
È passato un po’ di tempo da allora.
Spero che dovunque egli sia abbia trovato serenità…
Sicuramente si poteva fare di più; e di questo, da parte mia, ti chiedo scusa tenero amico.
Mi piacerebbe che ognuno – io per primo -, nel nostro piccolo in ogni ambito e situazione, non dimenticassimo di donare un po’ della nostra umanità.
Anche in piccoli, minuscoli gesti…
Non è sempre facile, vero; ma non è altrettanto, sempre, impossibile.
– diegofanelli –
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