Little Drop of Poison

Ecco che arriva la donna che quasi cade.
La chiamiamo così, dal suo modo di ondeggiare pericolosamente tra un passo e l’altro, costantemente al limite tra equilibri precari e ipotetici abbracci promessi da strani fantasmi a due centimetri dal suolo.
La musica costituisce per lei un richiamo irresistibile, quasi quanto i poltergeist che le negano affetto al limitare della superficie della strada.
La donna che cade, incurante di ogni giudizio, chiude gli occhi e risponde al veleno della gente con sorrisetti sotto i baffi, mentre i capelli sporchi, in preda alle forze del suo ballare, sono il più curioso sipario sulle nostre anime…
E’ lei che ci osserva in realtà,
ondeggiando sul teatrino stupido che siamo noi da questa parte.
-diegofanelli-

 

Percezioni, realtà, secondi dilatati e viaggi (non)fatti

Tra App di fitness che scandiscono secondi e dilatazioni temporali, una piccola riflessione sul potere creativo della mente…

-diegofanelli-

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“IL POZZO”, di Juan Carlos Onetti – LA MIA RECENSIONE/RIFLESSIONE (NO SPOILER)

Si odora le ascelle, Eladio.
Passa il naso da una all’altra muovendo la testa, e la barba incolta gli graffia la pelle.

Eladio Linacero, guardandosi indietro, non avrebbe mai immaginato di trovarsi a vivere in una stanza sudicia ad osservare oltre la finestra la vita degli altri accadere.
Limitato dal perimetro della camera da cui vede fluire le esistenze dei suoi vicini, vive una sorta di paradossale condizione da matematica degli insiemi: il cortile giù è un po’ come un metaforico insieme che collide, senza mai penetrarlo, con quello rappresentato a sua volta dal suo tugurio, e la linea lungo la quale il contatto tra i due avviene, stride per la mancata intersezione.
Non c’è speranza in tal senso: per quanto i due elementi entrino più o meno quotidianamente in contatto, non vengono mai a crearsi due punti capaci di sottendere un’area di condivisione. Egli non vive, sopravvive in uno sforzo di sublimazione continuo raccontandosi storie la cui funzione è: riprendere la realtà racchiusa in strani aneddoti, affiancarla alla fantasia, e tentare di ricevere un sì altrui alla domanda inespressa del: “mi comprendi attraverso ciò che racconto?”

Le storie che Eladio presenta (è un continuo entrarvi ed uscirvi, sempre sul filo della perdita onirica della realtà), sono quindi il ponte simbolico tra i due mondi prima identificati come due insiemi, l’atto più estremo che egli, nonostante il suo stramaledetto e inguaribile scetticismo, deve riconoscersi necessariamente per non ammettere di essere un perdente: ogni tentativo è il movimento di una gomma atta a cancellare la linea di impenetrabile congiunzione disegnata alla base della finestra, dovrebbe liberare spazio in cui tracciarvi poi un insieme “terzo”: un alveo di pace entro cui perdonare (che illusione!) il fatto che “tutto nella vita è merda”, citando precisamente.

Ma l’area “terza” sottesa dall’intersezione sperata si cancella sempre troppo rapidamente, anche quando quelle storie rimangono esclusiva della sua mente e la persona da raggiungere è solo l’immagine inventata di una prostituta: la vede mostrargli la spalla sinistra, ma non c’è voluttà inclusiva, no, s’infrangono tutte le sue illusioni sulla spalla stessa, dal momento in cui egli la nota arrossata mentre la donna esclama: “che bastardi, non si radono nemmeno…”
…si odora le ascelle, Eladio…
…passa il naso da una all’altra muovendo la testa, e la barba incolta gli graffia la pelle…

E poi c’è sempre quel ricordo: sì, quello dell’avventura della capanna di tronchi…

Juan Carlos Onetti attraverso una prosa meravigliosa, restituisce al lettore, con un romanzo brevissimo, una poesia in narrazione potente, struggente, malinconica.
Un uomo solo, Eladio, che, arrivato a ridosso dei quarant’anni, scrive la sua storia; e non vuole mentire perché lo odia!

“Il modo più ripugnante di mentire”, dice, “è dire la verità però occultando l’anima dei fatti”, ed Eladio, di anima, ce ne metterà oltremodo…

-diegofanelli-

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“LA SETTIMANA BIANCA”, di Emmanuel Carrère – LA MIA RECENSIONE (NO SPOILER)

Se la macchina in cui Nicholas siede in questo momento fosse la sua mente stessa, questa, nell’arrampicarsi tra tornanti innevati della montagna sulla cui vetta attende lo chalet che dovrà raggiungere, si muove sospesa tra, cemento-simbolo della stabile quotidianità sotto le gomme, e immaginazione-fluttuante come fiocchi di neve in caduta libera, sopra il tettuccio della berlina in cui viaggia.

Suo padre non gli ha concesso di andare in pullman con gli altri ragazzi; la settimana bianca la farà, d’accordo, a patto però che lo accompagni lui fin lassù: c’è stato un drammatico incidente tempo addietro, un autobus con dei ragazzini ne è stato coinvolto, e suo figlio non rischierà la stessa fine.

Il piccolo è impacciato, timido, e l’arrivo in compagnia del genitore non fa altro che farlo sentire ancor più diverso.
E si aggiunge pure un imprevisto: ha dimenticato lo zaino nel bagagliaio della macchina paterna: la ciliegina sulla torta dell’ulteriore disagio che dovrà assaporare nell’attesa che quegli se ne accorga e che torni a consegnarglielo; intanto, dovrà confidare negli altri; bella fregatura per chi come lui è così chiuso.

Chi gli presta, ad esempio, uno dei tre pigiama che avevano ricevuto raccomandazione di portare?

Dopo un lungo silenzio e qualche risatina, si fa avanti soltanto Hodkann, il più alto e temuto della classe, che così, stabilisce con lui un contatto.

È la prima notte, e Nicholas si sveglia nel bel mezzo del buio col suo liquido seminale che ha deciso di fargli una brutta sorpresa: farsi sentire appiccicaticcio sull’indumento donatogli dal nuovo amico.
Cazzo, e adesso?

Da qui, tutta una serie di eventi, una danza ondeggiante tra torbido e chiarore; la giostra della navicella-Nicholas: montagne russe del fantastico erette per codificare e de-codificare la realtà dura che sembra dipanarglisi davanti sempre più inesorabilmente.

La sua fervidissima mente, è una macchina che ascende, in sospensione, lungo le curve di una vetta alla tragica scoperta della molteplice faccia dell’immaginazione: che è magia salvifica e al contempo condanna.

La machina va, verso lo chalet meta di una settimana bianca…
…seme pallido di vita cruda, destabilizzata nel suo ordinario che diviene quindi sordido orrore.

– diegofanelli –

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Bellamente mi pressa

Prima di addormentarmi sul divano (rituale liturgico che seguo ogni pomeriggio di libertà), dò un’occhiata a quella famosa di Pessoa: che il poeta finge a tal punto che finge sia dolore il dolore che davvero sente…

Così,
tra il fingermi di meritare questo ristoro e la conferma reale delle mie stanchezze, mi distolgo dall’interesse di analizzarmi…

È comodo sprofondare in quest’ozio rubato: s’insinua nella realtà come un errore di parallasse sulle tacche della verità; mentre io, disteso come sono, vi guardo fuori asse…

Fingo, eppure dormo veramente.

Poetica del sonnecchiare…
…respirando la stessa aria del mio cane, ché le gambe bellamente mi pressa.

– diegofanelli –

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Hey tu amico, rinsavisci!

– Hey tu amico, rinsavisci!…

(…se non fosse, che il cotal amico è morto, cazzo!; egli, guarda loro dal suo riquadro d’annuncio funebre – ché sì, ha tirato le cuoia, lui! -, e lo fa con gli occhi immaginati da chi l’aveva conosciuto e lo ricorda visivamente tramite un testo accorato, oppure direttamente da una fotografia messa all’uopo risparmiante la fatica di una più accurata analisi testuale da parte degli “ancora respiranti!”).
Insomma, giriamola pure come vogliamo, davanti a me in questo momento vi sono morti da una parte e vivi dall’altra – e questi ultimi (o almeno alcuni di essi) sono in piedi, fissi, a leggerne le ultime comunicazioni funebri -: sembrano proprio dire “hey tu amico, rinsavisci!” per quanto ebete è la postura con la quale comunicano di non aver inteso trattarsi di passata a miglior vita; cavolo!, appare sul serio che siano convinti si parli di uomini o donne da far riprendere da una matta catatonia d’assenza, stampata su carta in bianco e nero, e non, ripeto, da gente ormai andata!

Li lascio alla loro particolare meditazione, e io sono già davanti al mio bel cappuccino quando, Tito, un cameriere del locale in cui mi trovo mi chiede: “cosa farai stasera per la vigilia di capodanno?”…”in campagna da un’amica, ognuno porta qualcosa da mangiare, poi si gioca e si passa la serata”, rispondo; lui annuisce, sinceramente contento per me; gli chiedo cosa farà lui, mi risponde che no, non farà nulla, sua moglie è influenzata e poi aggiunge con un sorriso…”ma starò con mio figlio!”

Sono anch’io sinceramente contento per lui, per la sua capacità di non abbattersi nonostante il lavoro massacrante a cui so che è esposto principalmente in questi giorni di festa, mentre io vago bellamente custodito nei delicati anfratti termici delle mie ferie…

Quando esco dal locale loro sono ancora lì, cazzo, fissano ancora stakanovisticamente il pannello funebre, e sono io a dir loro (stavolta ad alta voce) – hey voi rinsavite! -…e, beninteso, lo dico a quei vivi imbambolati eh!, non ai morti che già son morti!
E mi avvicino, e con un pennello rosso disegno ghirigori incomprensibili su ogni riquadro d’annuncio mortuario, rendo tutto ormai inutile da guardare, sovrascrivo tutte le parole buoniste e santificatrici postume di ogni trapassato, nessuno escluso!…

Poi mi volto, e ripeto ai vivi:
– Hey voi, rinsavite!, c’è gente viva come voi che viene fatta morire ogni giorno, subissata da prevaricazioni dei datori di lavoro, insultata, robotizzata nella serialità della loro mansione senza ritegno per la loro persona e le persone dei loro cari, dei loro figli che non vedono i propri genitori durante le feste se non a singhiozzi temporali…

– hey voi, rinsavite! Accorgetevi della vita e dei viventi!
E me ne vado solo…
E mi godo gli applausi mentali che mi faccio automaticamente…
Ma…
C’è un bel “ma”, adesso…

Tu che stai leggendo, oppure che stai ascoltando questa lettura, voi che in essa siete incappati: se ne siete stati rapiti e, diversamente se fossi stato più criptico – e vi garantisco che avrei potuto esserlo! – non vi sarebbe assolutamente “arrivata” (come si ama dire adesso), vi chiedo: davvero c’è ancora bisogno SOLO di questi sotterfugi narrativi per aprirci realmente la mente o il cuore? La lacrimuccia prodotta facile e calcolata da storiella che, per quanto contenente dettagli da rispettare sacralmente, è davvero l’unica (hey, sottolineo l’ “unica?”) risonanza intellettiva ed emotiva che ci concediamo?
– hey, RINSAVIAMO!
Perché se è davvero l’unico fottuto modo di farci vibrare l’anima ed eventualmente poi applaudire, credetemi, vuol dire che i tanti TITO, lavoratori-schiavi per tutte le feste, non vedranno mai i loro figli se non per qualche ora rubata tra un turno e l’altro!
– RINSAVIAMO!

…la realtà è spesso più COMPLESSA di un semplice raccontino “disneyaneggiante” pilotato da più o meno buoni arzigogoli scritturali strappalacrime; chi ci circonda e soffre spesso nasconde tutto dietro una fitta struttura celante i propri malanni interiori ed esteriori, e noi (nella nostra temporanea condizione di più fortunati), continueremo a non capirne un cazzo e a interessarci esclusivamente a storie che, quand’anche tremendamente e tragicamente importanti, e lo ripeto sacralmente da rispettare, ci saranno visibili solo se offerte nell’involucro del troppo facile.

– hey, gente, RINSAVIAMO!

Pretendiamo di più da noi stessi, dal nostro intelletto.
Proviamoci almeno!
Sto dicendo queste cose anche contro ciò che io stesso a volte scrivo, e che a volte amo scrivere, e che ancora a volte continuerò a scrivere e da cui a volte trarrò ancora egocentrici vantaggi (questo stesso scritto-contro-certi-scritti probabilmente me ne produrrà)!
…però, diamine, almeno ogni tanto sforziamoci tutti di essere meno “semplicistici!”; e lasciamo stare i pannelli funebri, che gli esseri umani che vi sono incollati, quelli, SEMPLICEMENTE sono ormai andati.

E ora fate pure un applauso…
O altrimenti state fermi e zitti, sennò c’inebetiamo un altro po’ tutti, io per primo!

– diegofanelli –
(immagine “free to use”, presa dal sito pixabay)

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Maríla

Aveva un cappello.
Posato sulla sedia accanto, lo teneva spinto verso il basso con una mano, come se dovesse difenderlo dal vento e allo stesso tempo evitare che qualcosa contenuto al suo interno scappasse…
Notai che pizzicava un po’ di cibo nel piatto davanti a sé attirandone una piccola poltiglia tra indice e pollice; poi, l’avvicinava al cappello che, servendosi della mano che prima premeva, sollevava con molta attenzione; quindi, vi infilava quel pizzico alimentare all’interno e attendeva qualche secondo; infine, ne veniva fuori con le dita prive di ogni contenuto, soltanto una patina oleosa traccia del passaggio temporaneo di qualcosa di commestibile.

Cosa c’è lì dentro?, le chiesi all’improvviso.
Mi rispose chiaramente che ci nascondeva un topo…

Maríla, veniva da chissà dove.
Vagabondava per le strade della mia grande città.
Era in pausa dal suo spettacolo; faceva l’illusionista, ma la sorpresa che quella sua sfacciataggine mi provocò nel portare un topo (un topo, capite?!) in un locale vietato agli animali fu così grande e inaspettata da destabilizzarmi, alla stregua dell’opera di un illusionista preso ancora nell’atto del suo numero e nel fiore espressivo delle sue abilità davanti al pubblico eccitato.

Maríla, c’è davvero un topo lì dentro?
Mi sorrise, e mi disse: certo, e l’ho preso dalla tua mente!

La mia mente?
Si alzò e si allontanò, tenendo il cappello con la parte cava verso il basso…
Mi aspettavo che l’animale cadesse, e per questo mi spostai in avanti gridando: Maríla!

Si voltò e sorrise fintamente sorpresa, e quasi con voce da bambina riprese…
Sono sempre meravigliosi i vostri giochi di prestigio! Come hai fatto a riportare il topolino nella tua testa?

Mi toccai il cranio ed una strana e bella sensazione mi pervase, come se fossi stato io a rimettere a posto tutto, rubandole il topo e avendo battuto il suo numero con uno migliore!

Fu eccezionale quel momento così semplice!…

Non l’ho rivista più.
Eppure, ogni tanto continuo a cercarla tra le strade di questa grande e meravigliosa città.
Ho visto molti suoi colleghi in queste vie, ma nessuno è stato in grado di riprodurre quella stessa sensazione sulla mia pelle…

Sono arrivato alla conclusione che, i maghi più bravi, siano quelli che si stupiscono delle tue di magie!
E Maríla, era una di questi: faceva sparire del cibo in mezzo a due dita sotto un cappello e, nel mentre, ti rendeva colui che col proprio stupore, la faceva stupire!
Magia su magia!, una specie di strano atto di sovrapposizione che elimina l’incanto e riporta ogni cosa alla straordinarietà universale della realtà…
…far accorgerti, e poi credere, nelle tue possibilità!

– diegofanelli –

(l’immagine utilizzata è una mia foto di un murales presente nel quartiere delle ceramiche a Grottaglie, che ho modificato leggermente in post-produzione. Purtroppo non conosco il nome dell’artista che ha creato la versione originale sul muro tale da poterlo riportare)

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Realtà Vs. Cosa?

Nel confronto tra le varie visioni circa i mondi “virtuali” del web e la vita da essi lontana (i social network in primis, con Facebook se fosse possibile, paradossalmente ancora più in cima!), si fa ancora fatica a mio avviso ad accettare che di “virtuale” (nel senso di “altro” dalla realtà) non hanno assolutamente nulla. E’ la stessa realtà che può “virtualizzarsi”!: essa è estremamente modificabile e stratificabile in dimensioni, sì, ma rimane perennemente fedele alla sua essenza!
Dentro un monitor o da uno schermo di uno smartphone, creiamo senza sosta (è vero!) infiniti mondi dentro cui (e tramite cui) esploriamo e ci lasciamo esplorare: verità e menzogna; perfezione e imperfezione; innocenza e dolo; ma queste (ed innumerevoli altre dicotomie), non “distinguono” in termini creativo-manichei diverse realtà tra loro, ma sono figli della stessa, unica realtà: ne sono semplicemente una diversa manifestazione!
Infatti, sono vero e finto lontano da Facebook come in esso; perfetto e imperfetto fuori da un browser così come dopo aver digitato le mie credenziali in un sito; e così via…

Concludendo, siamo “sempre” nel mondo “reale”…anche qui adesso, “dove” state leggendo queste parole: siete “nella” mia testa, eppure, siete “davanti” ad un display…

Lo ripeto: è la realtà che è virtualizzabile (non la virtualità – un’altra realtà!).

Per paradosso (e anche per provocazione ai danni degli accaniti sostenitori della verità come residente altrove a tutti i costi) dico che, probabilmente, la virtualizzazione, ha il pregio di portare alla luce con meno difficoltà molte più profondità nascoste di quante non ne faccia la vita quotidiana…

E per chiuderla ad effetto:
…non si è mai avuto (e non si ha) bisogno di username e password per essere (o vedere) un illusionista!

(autore:diegofanelli)